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IL PERMAFROST NELLE ALPI PIEMONTESI

Studio e monitoraggio del permafrost nelle Alpi piemontesi

Il sistema climatico terrestre è attualmente soggetto ad un’inequivocabile fase di riscaldamento. La temperatura media globale è aumentata di circa 0,8°C nell'ultimo secolo, e gli effetti più tangibili di questo riscaldamento interessano principalmente le risorse di neve e ghiaccio del pianeta, in diffusa riduzione, e il livello medio dei mari, in fase di innalzamento. Questa variazione climatica non è stata lineare nel tempo e altrettanto eterogeneo è stato il suo manifestarsi nello spazio (Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC, 2013).

I cambiamenti climatici agiscono sulle aree di alta quota in modo complesso. Esistono evidenze strumentali che comprovano un maggior riscaldamento delle aree montuose rispetto alla media globale o a quella dell’emisfero Boreale. Tuttavia, persistono incertezze nella quantificazione degli effetti delle variazioni globali su queste aree, legate sia alla scarsità di misurazioni sia alla difficoltà nel simulare le condizioni climatiche tramite modelli matematici (Beniston et al., 2018).

Auer et al. (2006) hanno implementato il database HISTALP, che raccoglie le principali serie di osservazioni climatiche relative alla cosiddetta "Greater Alpine Region", un'area che comprende le Alpi europee e le regioni immediatamente prospicienti. Dall'analisi di queste serie climatiche emerge come la catena alpina sia interessata da fenomeni di amplificazione delle variazioni climatiche, che hanno comportato un riscaldamento di 1,2°C nell'ultimo secolo, decisamente superiore rispetto alla media globale. Le precipitazioni mostrano, invece, una variazione meno significativa e variabile sia a livello stagionale, sia a livello regionale, con variazioni opposte tra il settore nord-occidentale (+9%) e quello sud-orientale (-9%) (Carturan, 2010).

La Criosfera

Un elemento caratteristico dell’area montana è costituito dalla criosfera definita come la “porzione della Terra in cui l’acqua si trova allo stato solido”. In ambito alpino fanno parte della criosfera la neve stagionale e perenne, i ghiacciai, il permafrost, il terreno congelato e il ghiaccio che si forma su corsi d'acqua e laghi (figura 1).

Figura 1
Schema della criosfera globale con indicazione di alcuni elementi dimensionali caratteristici

Fonte: IPCC 2007, modificato

L'importanza della criosfera alpina nella regolazione dei deflussi aumenta con la quota, tanto che si parla comunemente di regime "nivale", "glaciale" o "periglaciale", per indicare regimi di deflusso con spiccata stagionalità, dominati dalla fusione di neve e ghiaccio. Data l'elevata sensibilità alle condizioni ambientali, la criosfera costituisce un importante fattore di amplificazione della risposta idrologica e dei rischi naturali alle variazioni climatiche, sui bacini di alta quota. Essa rappresenta, inoltre, un preciso indicatore utilizzabile per il monitoraggio delle variazioni del clima.

Fra gli indicatori chiave utilizzati dall'Agenzia Europea per l'Ambiente (EEA) per descrivere l'impatto dei cambiamenti climatici in Europa, quelli legati ai sistemi criosferici occupano un posto di primo piano (European Environment Agency, 2012).

Esiste quindi la necessità di osservare il comportamento della criosfera in ambito alpino, sia per individuarne possibili tendenze evolutive, sia per migliorare la comprensione dei processi che agiscono su di essa e che regolano l'interazione tra clima, criosfera, regime idrologico e rischi naturali nei bacini d'alta quota (Vedi Focus su “Crollo del Monviso”). La misurazione delle variabili connesse alla criosfera pone però difficoltà oggettive, dovute in primo luogo alle particolari caratteristiche ambientali in cui ci si trova ad operare.

Il permafrost

Tra le componenti della criosfera, il permafrost è sicuramente l’elemento più difficile da osservare, benché sia quello più diffuso, e per questo motivo viene definito come “la componente nascosta della criosfera” (figura 2).

Prima dell’inizio del Progetto PermaNet, in Piemonte le conoscenze sul permafrost erano abbastanza scarse, riferite per lo più a studi focalizzati soprattutto sulla distribuzione e caratterizzazione dei rock glaciers (quali ad es. il rock glacier di Schiantalà in alta Valle Stura di Demonte nel cuneese e il rock glacier del Passo della Mulattiera in alta Val Susa, nel torinese).

Figura 2
Esempio di permafrost nel substrato roccioso con ghiaccio che riempie le fratture dell’ammasso roccioso

                                                                                                      Foto: H. French

Il ghiaccio esercita un’azione sia cementante sia dilatante nell’ammasso. Quando il ghiaccio fonde, l’ammasso roccioso tende a rilasciarsi e a disgregarsi. Sui versanti questo fenomeno causa il distacco di porzioni più o meno importanti di roccia.

Lo studio e il monitoraggio del permafrost sono relativamente recenti e negli ultimi anni hanno avuto un forte impulso grazie all’attenzione crescente posta dalla comunità scientifica e dall’opinione pubblica sia ai cambiamenti climatici sia agli effetti del riscaldamento globale nelle aree alto alpine. Arpa Piemonte ha avviato le attività inerenti il permafrost nel 2006. Nel 2009, grazie all’importante contributo del progetto europeo Alpine Space “PermaNET – Permafrost long-term monitoring Network”  (2008-2011), ha installato una rete di monitoraggio del permafrost alpino e ha implementato un servizio istituzionale specifico B3.19 Monitoraggio del permafrost nell’ambito del quale vengono condotte tutte le attività di studio e monitoraggio del permafrost nelle Alpi piemontesi.

Figura 3
Mappa della distribuzione del permafrost nelle Alpi

                                                                     Fonte: Progetto Interreg Alpine Space “PermaNET”

La mappa della distribuzione del permafrost nelle Alpi è uno dei principali risultati del progetto “PermaNET – Permafrost long-term monitoring Network” e da questa importante informazione, prima sconosciuta, è stato possibile avviare le attività di monitoraggio, di pianificazione territoriale, di studio ed approfondimento su questa importante componente della criosfera.

Il permafrost è un materiale della litosfera, o geomateriale (roccia, detrito, suolo), che rimane permanentemente ad una temperatura uguale o inferiore a 0°C. In questo contesto, il termine “permanentemente” è definito come intervallo temporale di due o più anni consecutivi, al fine di stabilire un valore minimo evitando di considerare permafrost l’effetto al suolo di un unico, lungo e freddo inverno. Pertanto, il permafrost è definito solo su base termica e temporale e al suo interno può esserci acqua allo stato liquido oppure ghiaccio, anche se non è una condizione essenziale. Quindi, in base a questa definizione, i ghiacciai non sono da considerarsi permafrost.
Molte aree in condizioni di permafrost subiscono i cicli di gelo-disgelo stagionali che causano l’alternarsi di temperature sopra e sotto 0°C nello strato più superficiale, definito strato attivo (active layer), che varia da zona a zona da alcune decine di cm ad alcuni m. Questo strato è particolarmente significativo in quanto al suo interno avvengono importanti processi geomorfologici tipici dell’ambiente periglaciale (creep, soliflussi, crolli, selezione granulometrica dei clasti, ecc.). Inoltre, il monitoraggio nel tempo del suo spessore fornisce un importante indicatore climatico.
I tipici profili termici invernali ed estivi di un terreno interessato da permafrost sono illustrati in figura 4. Il limite inferiore dello strato attivo è definito “tavola del permafrost” e può essere collocato a varia profondità (tra alcuni decimetri ad alcuni metri, nelle Alpi piemontesi raggiunge anche i 15 m). Sotto la tavola del permafrost la temperatura è perennemente minore di 0°C. Il punto dove la variazione annuale della temperatura è inferiore a 0,1°C è detto “Punto di oscillazione annuale Zero” (ZAA - Depth of Zero Annual Amplitude) e si colloca tra 10 e 20 m di profondità, a seconda delle condizioni climatiche e della conducibilità termica del suolo. Sotto la ZAA la temperatura aumenta per effetto del calore geotermico fino a superare nuovamente gli 0°C in corrispondenza della cosiddetta “base del permafrost”. Lo spessore del terreno compreso tra la tavola e la base del permafrost va da pochi metri a più di un migliaio di metri nelle aree polari.

Figura 4
Schema del profilo termico verticale estivo e invernale di un terreno interessato da permafrost e terminologia


Fonte: Arpa Piemonte


Il permafrost alpino (o montano) è il permafrost presente nelle aree montane. A differenza del permafrost presente nelle aree pianeggianti o semipianeggianti delle aree continentali polari e circumpolari o degli alti plateau posti anche alle medie latitudini (es. il plateau tibetano), il permafrost alpino è caratterizzato da una estrema variabilità spaziale. Infatti, la distribuzione del permafrost dipende in modo sensibile dalla variabilità del rilievo topografico (che ne condiziona l’altitudine e l’esposizione ai raggi solari) e dalla distribuzione disomogenea del manto nevoso (a sua volta condizionata dalla variabilità topografica del rilievo).
In ambito alpino la copertura nevosa riveste una notevole importanza, così pure la granulometria superficiale esercita un controllo significativo sulla temperatura del terreno.

Un esempio dell'andamento tipico della temperatura superficiale del terreno in un'area probabilmente interessata da permafrost è proposto in figura 5. I parametri che generalmente si vanno a calcolare sono la temperatura media annua della superficie del suolo (MAGST - Mean Annual Ground Surface Temperature), la temperatura di equilibrio invernale (WEqT - Winter Equilibrium Temperature; si tratta della temperatura del suolo nella seconda parte dell’inverno, quando non ci sono più variazioni significative della temperatura), la somma dei gradi-giorno negativi (FrezInd - Freezing Index o indice di gelo) oppure la durata della fase di Zero Curtain (periodo durante il quale la temperatura è esattamente di 0°C).

Figura 5
Profilo termico superficiale annuale di un terreno interessato da permafrost


Fonte: Scapozza, 2009

A seconda della distribuzione spaziale, si parla di permafrost “continuo”, “discontinuo” o “sporadico”. Generalmente il primo è presente dove la temperatura media annua dell’aria (MAAT) è inferiore a -8°C, il secondo con MAAT comprese tra -8 e -1°C, il terzo può essere presente anche con temperature superiori a -1°C.

Un particolare ambito dove quanto appena esposto risulta evidente è l’ambiente di grotta. Nelle Alpi vi sono molte cavità naturali che contengono accumuli perenni di ghiaccio e che molti autori includono tra i fenomeni di permafrost sporadico (nel linguaggio tecnico vengono definite “Ice caves”). In Piemonte tali fenomeni sono noti soprattutto nel settore che va dalle Alpi Liguri alle Alpi Cozie, in corrispondenza dei principali affioramenti di rocce carbonatiche nelle quali si sviluppano i processi carsici che danno origine alle grotte naturali.

Attività di monitoraggio in grotta

Arpa Piemonte ha intrapreso nel 2016 un’attività di monitoraggio termico in grotta con la collaborazione del DIATI (Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente e del Territorio) del Politecnico di Torino e di alcuni gruppi speleologici piemontesi (in particolare del Gruppo Speleologico Valle Tanaro), dell’Ente di gestione delle Aree protette delle Alpi Marittime e del CNR-IRPI di Torino. Tale attività si sviluppa in alcune grotte con ghiaccio delle Alpi Liguri (codificate dagli speleologi come “Rem del ghiaccio”, “Lambda21”, “Ro mina”) e delle Alpi Cozie meridionali (Lou Pertus d’la Patarassa) e in alcune cavità senza ghiaccio (tunnel artificiale del Buco di Viso nelle Alpi Cozie centrali, in collaborazione con il Parco del Monviso, e la grotta turistica di Bossea nel Monregalese, in quest’ultimo caso è coinvolto anche l’INRiM, Istituto Nazionale per la Ricerca Metrologica con sede a Torino) (figura 6).

L’ambiente di grotta, dal punto di vista dello studio e del monitoraggio termico, presenta alcune peculiarità di notevole interesse in quanto è caratterizzato da: i) assenza di radiazione solare diretta, ii) assenza di copertura nevosa stagionale, iii) assenza di copertura vegetale, iv) maggiore stabilità termica, v) condizioni di elevata umidità costante nel tempo. Tutti questi fattori semplificano il modello e favoriscono la comprensione degli scambi energetici tra atmosfera e ammassi rocciosi.

Figura 6
Stralcio della carta regionale della distribuzione potenziale del permafrost per la Provincia di Cuneo

Fonte: Arpa Piemonte

Nella mappa sono indicate alcune aree di studio e approfondimento (indicate con CN e qui non specificate) e le ubicazioni delle grotte con monitoraggio termico da parte di Arpa Piemonte e Politecnico di Torino (BV: tunnel del Buco di Viso, PP: Lou Pertous d’la Patarasa, BO: Bossea, L21: Lambda 21, RM: Ro Mina, RG: Rem del ghiaccio).

Monitoraggio termico delle Ice Caves


Nel settore delle Alpi Liguri e delle Alpi Cozie sono presenti numerose cavità con depositi di ghiaccio perenne o con veri e propri ghiacciai ipogei (definite Ice Caves) ubicate anche a quote relativamente basse (al di sotto dei 2000 m). I notevoli incrementi della temperatura dell’aria che si stanno registrando in atmosfera condizionano pesantemente la presenza di questi depositi, in genere situati nei primi tratti di alcune cavità della zona alpina. Il risultato di tale evidente cambiamento è la completa sparizione di ghiaccio nel periodo di fine estate-autunno o la marcata riduzione di spessore della massa glaciale osservata dagli speleologi nell’ultima decina di anni.
Dal 2016 ha avuto inizio il monitoraggio delle temperature aria-roccia di quattro cavità carsiche caratterizzate da presenza di ghiaccio formatosi in condizioni piuttosto differenti. Nella grotta “Rem del ghiaccio” con ingresso a quota 1900 m s.l.m. (massiccio del Monte Antoroto) si trova un ghiacciaio ipogeo originato da fenomeni di sublimazione inversa legato alla notevole circolazione d’aria e alle basse temperature dell’ammasso roccioso. Anche nella grotta “Ro mina”, con ingresso a quota 2250 m s.l.m. (massiccio del Monte Mongioie) la notevole circolazione d’aria e le basse temperature della roccia condizionano la formazione di ghiaccio legata alle acque di percolazione. Nella soprastante grotta “Lambda 21”, con ingresso a quota 2310 m s.l.m., il ghiacciaio ipogeo presente è prevalentemente legato all’accumulo di neve in un ampio pozzo direttamente collegato con la superficie ed alla circolazione dell’aria che, come nelle altre suddette cavità, è in forte aspirazione nei periodi freddi. La grotta denominata “Lou pertus d’la Patarasa”, con ingresso a quota 2020 m s.l.m. presso Castelmagno nelle Alpi Cozie meridionali, presenta attualmente soltanto un piccolo deposito di ghiaccio che sembra essersi formato per congelamento di acque di percolazione legate alle basse temperature di una cavità di sviluppo limitato che funziona da trappola di aria fredda.

Figura 7
Diverse tipologie di ghiaccio nelle Ice Caves piemontesi



a. ghiacciaio ipogeo nella “Sala del ghiacciaio” della grotta “Rem del ghiaccio” (Garessio, CN, foto di B. Vigna estate 2018);
b. modesto deposito di ghiaccio stratificato della grotta “Lou Pertous d’la Patarasa” (Castelmagno, CN, foto L. Paro estate 2018) in cui si vedono alla base i depositi detritici cementati dal ghiaccio;
c. punto di monitoraggio termico nella grotta “Ro Mina” (Garessio, CN, foto L. Paro estate 2016) in prossimità di una colonna di ghiaccio formatasi per congelamento di acqua di percolazione.

Per la misura della temperatura nei diversi elementi (aria, roccia, acqua e ghiaccio) sono utilizzati acquisitori e sensori della ditta Gemini. Tali apparecchiature sono state installate in diverse zone delle cavità, a partire dall’ingresso, con acquisizione del dato ogni due ore. Lo studio ed il monitoraggio, tutt’ora in corso, sono iniziati nella stagione estiva del 2016 a “Rem del Ghiaccio” ed a “Ro mina”, dal settembre 2017 al “Pertous d’la Patarasa” e da luglio 2018 a “Lambda 21”. La notevole quantità di dati raccolti finora ha permesso di acquisire informazioni molto interessanti relative alle variazioni annuali dei valori di temperatura aria-roccia con i quali è stato possibile elaborare alcune ipotesi riguardanti i fenomeni che condizionano sia la formazione che la riduzione di questi depositi di ghiaccio.

Il caso studio della grotta “Rem del ghiaccio”


Nell’ambito dello studio e monitoraggio delle Ice Caves, particolare attenzione è stata posta alla grotta “Rem del ghiaccio” per l’imponente ghiacciaio che ospita (in rapida regressione) e per l’importante informazione climatica e paleo-climatica che può fornire. La grotta è stata scoperta dallo Speleo Club Tanaro nel 1995 ed esplorata per un breve tratto fino ad una galleria ostruita da un muro di ghiaccio. La grotta ospita due distinti ghiacciai ipogei: il primo, più piccolo, localizzato dopo il primo pozzo di accesso, il secondo a circa 70 metri dall’ingresso. Nel 2015, durante un sopralluogo per prelevare un campione di ghiaccio da sottoporre ad indagini paleo-magnetiche, si scoprì che la fusione del ghiaccio aveva aperto un passaggio che dava accesso alle parti profonde della cavità (ora con uno sviluppo esplorato che supera i 2,6 km ed una profondità di 290 m).

Questo passaggio permetteva quindi di oltrepassare il muro di ghiaccio che aveva fermato i primi esploratori e di valutare la dimensione del ghiacciaio che copriva una superficie di circa 30 m2 per uno spessore di oltre 8 m. A partire dal luglio 2016 è stata avviata una ricerca, tuttora in corso, in collaborazione tra Arpa Piemonte, il DIATI del Politecnico di Torino, lo Speleo Club Valle Tanaro, il CNR-IRPI di Torino e l’Ente di gestione aree protette Alpi Marittime per lo studio di tale ghiacciaio attraverso il monitoraggio dei valori di temperatura aria-roccia, campionamenti e analisi chimico-fisiche del ghiaccio, campionamenti di materiale organico e datazioni con C­14. Nell’autunno del 2019 è inoltre stato realizzato un campionamento del ghiaccio a diverse altezze, trasportando poi il materiale in elicottero fino a Torino e quindi con un furgone refrigerato a Milano dove i campioni sono stati recapitati all’Euro Cold Lab del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra della Università di Milano Bicocca, per successive analisi.

Figura 8
Grotta “Rem del ghiaccio


A sinistra la fase di campionamento del ghiaccio nella grotta effettuato ad ottobre 2019 (nell’immagine sono indicati con tratti neri i 6 spezzoni di 50 cm di lunghezza ciascuno campionati alle diverse altezze nella parete di ghiaccio, foto di B. Vigna).
A destra, due campioni di ghiaccio prelevati in cui sono visibili i piani di stratificazione ed alcune bolle d’aria (foto a cura dell’Euro Cold Lab del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra della Università di Milano Bicocca).

Figura 9
Andamento della temperatura dell’aria all’interno della grotta “Rem del ghiaccio”- dall’estate 2016 all’estate 2017

Fonte: Arpa Piemonte e Politecnico di Torino

Temperatura misurata in prossimità dell’ingresso nella “Sala del ghiacciaio” ad altezze diverse, rispettivamente a 50 cm (in blu) e a 200 cm (in rosso) dal pavimento della grotta.

CROLLO DALLA PARETE NORDEST DEL MONVISO

Il 26 dicembre 2019 un settore della parete nordest del Monviso è stato interessato da un crollo in massa di grandi dimensioni. Il crollo si è verificato nella mattina ed è stato osservato e ripreso con videocamere dai numerosi escursionisti e sciatori presenti in zona ma solo dopo il sopralluogo tecnico effettuato dai tecnici di Arpa Piemonte l’8 gennaio 2020 è stato possibile fornire qualche dettaglio dimensionale. Durante il sopralluogo è stato possibile perimetrare con precisione il bordo inferiore dell’accumulo e di effettuare riprese fotografiche della parete interessata dal crollo. Dal confronto con immagini precedenti è stato possibile delimitare la porzione rocciosa crollata.

Il distacco si è verificato alla sommità del Torrione del Sucai, indicativamente alla quota di 3200 m s.l.m., posto circa 200 metri a sudest del Canalone Coolidge, e si è sviluppato fino a quota 2800 m s.l.m. circa. L'ampiezza della fascia rocciosa coinvolta è di circa 50-60 metri. Il materiale crollato, dopo aver percorso il canale sottostante il torrione, si è distribuito sul cono detritico preesistente tra le quote 2650 e 2520 m s.l.m. Sulla base dei parametri dimensionali stimati è plausibile ritenere che il fenomeno abbia mobilizzato circa 200.000 m3 di roccia e i blocchi di maggiori dimensioni, distribuiti sul bordo inferiore dell’accumulo, hanno dimensioni comprese tra 150 e 250 m3 (figura 10).

Figura 10
Panoramica del versante nord-orientale del Monviso interessato dal crollo del 26 dicembre 2019


Foto: D. Bormioli, Arpa Piemonte, 8 gennaio 2020

Il settore di parete dove si è sviluppata la frana aveva già dato segnali di attività nel passato come testimoniano i numerosi blocchi di grandi dimensioni presenti alla sua base; in particolare, dal confronto tra le fotografie aeree, si osserva un netto aumento dei massi nel periodo successivo al 2010. Nel corso del sopralluogo e ancora nei giorni successivi si è constatata una residua attività della zona con crolli di piccole dimensioni. Considerata la marcata fratturazione dell’ammasso roccioso è probabile che la parete non abbia ancora raggiunto un equilibrio e quindi che siano ancora possibili fenomeni importanti di frana.

Geologia del Monviso

La conformazione orografica del Monviso e delle montagne circostanti trova un chiaro riscontro nelle caratteristiche geologiche di questo settore della catena alpina, costituito da un corpo di rocce ofiolitiche (noto in letteratura come Complesso meta-ofiolitico del Monviso, CMM) caratterizzato da una elevata resistenza all’erosione ed esteso per circa 35 km circa attraverso le valli Pellice, Po e Varaita. Il CMM è costituito da diverse unità di serpentiniti, meta-gabbri, meta-basalti e meta-sedimenti che raggiunge la massima potenza (circa 6 km) in Valle Po (Lombardo et al., 2017).

Storia glaciale del Gruppo del Monviso

Analizzando la storia glaciale del Gruppo del Monviso, nel corso dell’ultima espansione glaciale (LGM, Last Glacial Maximum, tra 30.000 e 18.000 anni BP) i versanti esposti verso i quadranti sud-occidentali alimentavano l’imponente ghiacciaio che defluiva lungo la Val Varaita, mentre alla base dei versanti esposti verso i quadranti orientale e nord-orientale traevano origine una serie di distinte lingue glaciali non particolarmente estese e confinate negli alti valloni tributari del Po, dove sono conservati spettacolari rilievi morenici.

Nel corso della Piccola Età Glaciale (PEG, XV-XIX secolo AD) lungo i ripidi versanti del Monviso erano ospitati una decina di apparati glaciali e, a tutt’oggi, sopravvivono unicamente piccoli ghiacciai spesso frammentati come quelli di Caprera e di Vallanta sul versante occidentale e il Ghiacciaio Superiore di Coolidge sul versante nord-orientale, che nel Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani (2015 e successivi aggiornamenti) vengono classificati come glacio-nevati (Lombardo et al., 2017).

Figura 11
Versante NE del Monviso ripreso dal Lago Chiaretto


Foto: G. Fioraso in Lombardo et al., 2017

Td) Depositi Tardoglaciali; Pg) depositi della Piccola Età Glaciale (PEG). La linea continua bianca rappresenta il limite della massima avanzata dei ghiacciai nelle fasi culminanti della PEG; la linea tratteggiata bianca rappresenta la massima estensione dei depositi glaciali della PEG.

Figura 12
Ripresa aerea prospettica del versante NE del Monviso

Aereofoto CGR tratta da Lombardo et al., 2017

In azzurro la massima espansione dei ghiacciai della PEG, in viola le masse glaciali attualmente presenti. La linea tratteggiata indica l’area coinvolta dalla valanga di ghiaccio generatasi dal collasso del Ghiacciaio Superiore di Coolidge del 6 luglio 1989.

Crollo di ghiaccio del 6 luglio 1989

Di particolare interesse ai fini della comprensione del contesto evolutivo della parete nord-orientale risulta essere il crollo del Ghiacciaio Superiore di Coolidge avvenuto la sera del 6 luglio 1989. Tale ghiacciaio, annidato in una nicchia posta a 3200 m di quota, si scollò dal substrato precipitando nel sottostante canalone Coolidge. La massa di ghiaccio mobilizzata (volume stimato di circa 200.000 m3) scese velocissima lungo il canalone, impattò sul Ghiacciaio Inferiore di Coolidge causando un’onda sismica registrata ad oltre 20 km di distanza e, dopo aver percorso un dislivello di circa 900 m, si espanse nell’area circostante il Lago Chiaretto (a 2261 m di quota) su una superficie di 250.000 m2 circa, con spessori massimi di una decina di metri.
Tra le cause predisponenti e innescanti del crollo del ghiacciaio nel 1989, gli Autori riportano: i) la presenza di un crepaccio sommitale beante in grado di drenare le acque di ruscellamento, ii) piogge anche in alta quota nei giorni precedenti il distacco, iii) l’isoterma 0°C in rialzo fino a quota 4500 m nelle ore centrali del 6 luglio. Quest’ultimo aspetto assume un particolare rilievo perché il crollo del Ghiacciaio di Coolidge può essere considerato il primo e significativo evento di instabilità nell’ambiente glaciale italiano riconducibile al riscaldamento climatico (Lombardo et al., 2017).

Crollo di roccia del dicembre 2019

Per il crollo di roccia del dicembre 2019, tenendo conto della quota e dell'esposizione del settore di parete crollato si può ipotizzare che, oltre alla fratturazione della roccia, abbia rivestito un ruolo determinante nell'innesco del processo la degradazione del permafrost. I dati del monitoraggio del permafrost in Piemonte evidenziano una tendenza di incremento delle temperature nel sottosuolo in cui il permafrost è in fase di degradazione anche a 3000 m di quota. A questa situazione sono probabilmente collegati i numerosi fenomeni gravitativi degli ultimi anni sviluppatisi circa alle stesse quote, in particolare quello della cresta Sud del M. Rocciamelone (evidenziatosi nel dicembre 2006), quello del Monte Rosa (nel dicembre 2015) e l’imponente frana complessa del Pizzo Cengalo (Val Bregaglia, Cantone dei Grigioni in Svizzera, agosto 2017).

Al momento sono in corso ulteriori indagini per verificare lo stato di fratturazione e le condizioni di stabilità degli ammassi rocciosi interessati dal crollo (in collaborazione con Arpa Valle d’Aosta che effettuerà delle riprese fotogrammetriche con il drone) e l’analisi dei dati di temperatura registrati in roccia da Arpa Piemonte nel vicino tunnel del Buco di Viso (posto a circa 2900 m di quota in corrispondenza del Colle delle Traversette).

CONTENUTI CORRELATI


Per approfondimenti sul permafrost consulta la bibliografia:
Auer I. et al. (2006) - HISTALP - historical instrumental climatological surface time series of the Greater Alpine Region, Int. J. Climatol., 27(1); pp. 17–46

Beniston M., Farinotti D., Stoffel M., Andreassen L.M., Coppola E., Eckert N., Fantini A., Giacona F., Hauck Ch., Huss M., Huwald H., Lehning M., López-Moreno J.-I., Magnusson J., Marty Ch., Morán-Tejéda E., Morin S., Naaim M., Provenzale A., Rabatel A., Six D., Stötter J., Strasser U., Terzago S., and Vincent Ch. (2018) - The European mountain cryosphere: a review of its current state, trends, and future challenges, The Cryosphere, 12, 759–794, 2018, https://doi.org/10.5194/tc-12-759-2018

Carturan L. (2010) - Effetto delle variazioni climatiche sulla criosfera e sull’idrologia dei bacini d’alta quota, Tesi di dottorato dell’Università degli Studi di Padova - Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali, Scuola di Dottorato di Ricerca in Territorio, Ambiente, Risorse e Salute (indirizzo Idronomia Ambientale), XXII ciclo; pp. 188

European Environment Agency (EEA) (2012) - Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2012. An indicator-based report, EEA Report No 12/2012, ISSN 1725-9177; pp. 304

Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC (2013) - Climate Change 2013: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Stocker, T.F., D. Qin, G.-K. Plattner, M. Tignor, S.K. Allen, J. Boschung, A. Nauels, Y. Xia, V. Bex and P.M. Midgley (eds.)]. Cambridge University Press, Cambridge, United Kingdom and New York, NY, USA; p.p. 1535

Scapozza C. (2009) - Contributo dei metodi termici per la prospezione del permafrost montano: esempi dal massiccio della Cima di Gana Bianca (Val Blenio, Svizzera), Boll. Soc. Tic. Sci. Nat., 97; pp. 55-66

Consulta gli approfondimenti sul permafrost ai seguenti link:
Monitoraggio permafrost
RSA 2019 – 10 anni di monitoraggio del permafrost nelle Alpi piemontesi
RSA 2018 – Permafrost e rischi naturali
RSA 2017 – Permafrost nelle Alpi piemontesi

Per approfondimenti sul crollo del Monviso
:
Lombardo B., Fioraso G., Balestro G. e Mortara G. [eds.] (2017) – Monviso, Re di pietra. I ghiacciai che hanno visto nascere il Club Alpino Italiano, in Guide Geologiche Regionali – Itinerari glaciologici sulle montagne italiane, vol. 2 (Dalle Alpi Marittime all’Alpe Veglia), a cura del Comitato Glaciologico Italiano, Società Geologica Italiana 2017; pp. 37-52.

Consulta gli approfondimenti sul crollo del Monviso ai seguenti Link
Gli esiti del sopralluogo sul Monviso dell’8 gennaio 2020 sono riportati in una specifica scheda di dettaglio del sistema informativo frane in Piemonte SIFraP
Il monitoraggio geotecnico-termico del M. Rocciamelone
Il crollo del Ghiacciaio Superiore di Coolidge del 6 luglio 1989