IL PERMAFROST NELLE ALPI PIEMONTESI
Studio e monitoraggio del permafrost nelle Alpi piemontesi
Nell’area montana piemontese è un elemento della criosfera, definita come la “porzione della Terra in cui l’acqua si trova allo stato solido”. In ambito alpino fanno parte della criosfera la neve stagionale e perenne, i ghiacciai, il permafrost, il terreno congelato e il ghiaccio che si forma su corsi d'acqua e laghi; sebbene la presenza del ghiaccio per la definizione del permafrost non sia un elemento fondante in quanto il materiale può essere secco o può contenere acqua allo stato liquido, anche se le temperature sono < 0 °C (ad es. a causa di sali disciolti o di falde in pressione che abbassano la temperatura di congelamento).
Tra le componenti della criosfera, il permafrost è sicuramente l’elemento più difficile da osservare, benché sia quello più diffuso al mondo e per questo motivo viene definito come “la componente nascosta della criosfera”. Lo studio e il monitoraggio del permafrost sono relativamente recenti e negli ultimi anni hanno avuto un forte impulso grazie all’attenzione crescente posta dalla comunità scientifica e dall’opinione pubblica sia ai cambiamenti climatici, sia agli effetti del riscaldamento globale nelle aree alto alpine in quanto il permafrost è direttamente collegato alle caratteristiche climatiche sia globali che locali ed il suo monitoraggio fornisce un importante contributo alla comprensione dei cambiamenti climatici in area montana, dei rischi naturali in alta quota e sul ciclo idrologico delle terre alte.
Figura 1
Stazione di monitoraggio del permafrost del Colle Sommeiller
Le 5 stazioni piemontesi installate, distribuite in tutto l'arco alpino della regione, sono le seguenti :
- Passo del M. Moro, quota 2870 m (Macugnaga, VB), pozzo di 30 m
- Passo dei Salati – Corno del Camoscio, quota 3020 m (Alagna Valsesia, VC), pozzo di 30 m
- Colle Sommeiller, quota 2985 m (Bardonecchia, TO), 3 pozzi di 5, 10 e 100 m
- Passo de La Colletta, quota 2850 m (Bellino, CN), pozzo di 30 m
- Passo della Gardetta, quota 2500 m (Canosio, CN), pozzo di 30 m
Alcune stazioni installate nel biennio 2009÷2010, danneggiate a causa di infiltrazioni d'acqua, sono state ripristinate e un report di sintesi descrive per immagini tale attività svolta principalmente nel periodo 2011÷2013, documentando, inoltre, i successivi interventi di sistemazione e trasformazione delle stazioni.
La relazione causa-effetto e l’indicatore “permafrost”
Grazie ai dati del monitoraggio del permafrost nel periodo 2010-2020 è stato possibile sviluppare uno specifico indicatore “permafrost” per dare conto degli effetti del cambiamento climatico che è pubblicato sul Portale Nazionale dell’Adattamento al Cambiamento Climatico (PNACC) realizzato dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) per il Ministero dell’Ambiente (MiTE).
Caratterizzazione impatto
Scenario futuro
Un ulteriore aspetto che si sta recentemente approfondendo è la relazione tra la degradazione del permafrost e le risorse idriche in alta quota. Alcuni studi dimostrano che la fusione del ghiaccio contenuto nel permafrost altera in quota l’idro-chimica di sorgenti, torrenti e piccoli laghi con conseguente perdita di qualità della risorsa a discapito degli utilizzi sia antropici sia zootecnici.
Metodologia di elaborazione dell’indicatore “permafrost”
Figura 2
Grafici del monitoraggio termico a 35 m di profondità nei siti del Colle Sommeiller in Piemonte (in alto) e del Colle Cime Bianche in Valle d’Aosta (in basso).
La tendenza al riscaldamento del permafrost è evidente nei due siti analizzati (in Piemonte e Valle d’Aosta) ed in media è di +0.147°C ogni 10 anni. I valori nei due siti sono molto simili ed entrambi statisticamente significativi e sono in linea con quanto osservato in altri siti della regione alpina. Poiché la temperatura del permafrost nel sito piemontese è di circa -0.3°C mentre in quello valdostano è di circa -1.2°C, in base al trend attuale è molto probabile che, alla profondità di 35 m, il permafrost si degradi completamente entro il 2040 nel sito piemontese, mentre è probabile che si conservi almeno fino alla fine del secolo nel sito valdostano.
Altre attività collegate al Monitoraggio del permafrost
Il monitoraggio GST viene effettuato tramite termometri inseriti nei geo-materiali a profondità variabili da 2 a 100 cm. Tale monitoraggio analizza l’equilibrio termico della superficie terrestre e consente di valutare il trasferimento di calore tra atmosfera e geosfera. Un particolare ambiente in cui viene effettuato tale monitoraggio è quello delle cavità ipogee con e senza ghiaccio (maggiori informazioni nella Relazione Stato Ambiente 2020 e 2019).
Le misure BTS consistono in misure della temperatura dell’interfaccia neve-suolo, effettuate verso la fine dell’inverno o all’inizio della primavera prima che inizi la fusione nivale. Se lo spessore del manto nevoso durante l’inverno è stato sufficientemente elevato (in genere > 80-100 cm), tale da consentire un completo isolamento tra atmosfera e geosfera, i valori rilevati sono legati all’equilibrio termico del flusso di calore derivante dal sottosuolo. In base a regole empiriche, se i valori BTS sono < -1.7 ÷ -2 °C è probabile che ci siano condizioni di permafrost. L’interpolazione delle misure, meglio se distribuite secondo un reticolo a maglie regolari, su ampie superfici, consente di stimare la distribuzione del permafrost.
Altri tipi di indagine permettono di analizzare le caratteristiche del sottosuolo, individuando in particolare la presenza di ghiaccio. Tra le tecniche maggiormente utilizzate vi sono quelle geofisiche della tomografia di resistività elettrica (ETR), del geo-radar (GPR) e della sismica passiva (HVSR). Questi approfondimenti specialistici sono svolti da Arpa Piemonte in collaborazione con vari enti ed istituzioni quali le Università dell’Insubria e di Pisa. Altre indagini vengono condotte in collaborazione con Arpa Valle d’Aosta, che si occupa di rilievi fotogrammetrici di precisione tramite drone, e con il CNR-IRSA di Verbania ed il DIATI del Politecnico di Torino, coinvolti nell’analisi delle relazioni tra criosfera e le risorse idriche.
Processi di instabilità di versante in alta quota
Il permafrost influenza il comportamento idrologico e meccanico del substrato roccioso fratturato. L’acqua congela in cavità e fessure intorno a 0 °C, anche se variazioni del punto di congelamento possono verificarsi in base alla pressione ed al contenuto di sali all’interno dell’acqua. Ogni passaggio di stato dell’acqua (da solido a liquido e viceversa) comporta scambi di calore latente con la roccia con conseguente alterazione della permeabilità idraulica, degli sforzi meccanici e dei campi di stress che agiscono sugli ammassi rocciosi.
Durante la formazione del ghiaccio, la solidificazione dell’acqua comporta un aumento di volume di circa il 10%. Questa dilatazione causa un forte stress all’interno delle fratture che vengono via via allargate, con propagazione dei giunti all’interno degli ammassi rocciosi ed un aumento del grado di fratturazione della roccia. Tale processo è ben documentato dal monitoraggio microsismico che evidenzia un aumento significativo delle emissioni acustiche durante il raffreddamento degli ammassi rocciosi contenenti acqua passando a temperature al di sotto di 0 °C.
Un ammasso roccioso con fratture riempite di ghiaccio diventa pressoché impermeabile. Alcuni ricercatori hanno sperimentato che la permeabilità del granito fessurato e congelato è da uno a tre ordini di grandezza inferiore alla permeabilità di una roccia identica ma senza ghiaccio. Quindi, in un substrato roccioso fratturato saturo, il permafrost funge da aquiclude (corpo geologico impermeabile) che a sua volta può racchiudere falde acquifere in pressione, ovvero zone con acqua allo stato liquido anche all’interno del permafrost (dette “talik”). Con questa configurazione si possono creare delle sovrapressioni idrauliche all’interno dell’ammasso roccioso in grado di generare stress meccanici capaci di destabilizzare grandi porzioni di roccia sui pendii.
D’altro canto, la presenza di ghiaccio all’interno delle fratture esercita un potere cementante e quindi stabilizzante nei confronti dell’ammasso roccioso. Quindi, in alcuni contesti, il ghiaccio del permafrost e la sua conservazione hanno un effetto positivo sulla stabilità dei pendii.
Per questo motivo, la progressiva fusione del ghiaccio contenuto nel permafrost nelle aree montane causa un incremento della pericolosità naturale legata alla instabilità dei versanti. Infatti, nel corso degli ultimi decenni è stato osservato un aumento dell’intensità e della frequenza di frane e di colate detritiche lungo l’arco alpino. Alcuni esempi significativi sono rappresentati dal collasso della morena del ghiacciaio del Mulinet (nelle Alpi Graie piemontesi, nel settembre 1993), i crolli in roccia sul versante italiano del Cervino (luglio 2003), del Petit Dru (Gruppo del M. Bianco in Francia, ripetuti eventi dal 1997 ad oggi), del Rocciamelone (Val Susa, fine 2006 e continuati nel 2007) e in alcune cime dolomitiche (es. la Torre Trephor del Gruppo delle Cinque Torri di Cortina d’Ampezzo, nel 2004), la grande frana della Thurwieser in alta Valtellina (oltre 2 milioni di m3 di rocce coinvolte, nel settembre 2004), la colata detritica (debris flow) a Guttannen (in Svizzera, nel 2011), il crollo della Punta Tre Amici sul versante di Macugnaga del Gruppo del Monte Rosa (dicembre 2015 e continuato nel 2016) e la grande frana complessa del Pizzo Cengalo (Val Bregaglia, Cantone dei Grigioni in Svizzera, agosto 2017) in cui circa 4 milioni m3 di roccia si sono staccati da circa 3000 m di quota ed hanno raggiunto l’abitato di Bondo come colata detritica causando ingenti danni.
Crollo dalla parete nordest del Monviso
Figura 3
Vista frontale della frana sulla parete NE del Monviso attivatasi il 26 dicembre 2019
Foto: D. Bormioli, Arpa Piemonte, 8 gennaio 2020
I recenti fenomeni gravitativi della parete nordest del Monviso si inseriscono in un contesto generale di instabilità caratteristico delle aree alto alpine. Negli ultimi anni, sempre più spesso, tali processi sono stati messi in relazione con i cambiamenti climatici e con la degradazione del permafrost, anche se la mancanza di dati, soprattutto quelli di temperatura all’interno degli ammassi rocciosi, non consente di stabilire in modo univoco e certo un rapporto di causa-effetto tra il riscaldamento atmosferico, la degradazione del permafrost ed i fenomeni gravitativi. Tuttavia, è innegabile che i dati termo-pluviometrici storici locali e, in generale, relativi all’area alpina, mostrino un cambiamento in atto nel regime climatico, una tendenza che si esprime in modo più evidente con un generale aumento della temperatura atmosferica, seppur con differenti caratteristiche stagionali. A questa tendenza media, si aggiungono episodi particolarmente anomali, come ad esempio l’estate calda del 2015 (la seconda più calda in Piemonte negli ultimi 60 anni) che forniscono un ulteriore fattore di stress climatico al sistema atmosfera-criosfera-geosfera.
Nelle figure 4 e 5 è riportato uno stralcio in pianta e in visione tridimensionale virtuale del modello della distribuzione del permafrost delle Alpi a livello europeo (APIM “Alpine Permafrost Index Map” Boekli et al., 2012) che individua i settori in cui è possibile che si verifichino le condizioni per la formazione e/o conservazione del permafrost. Per l’area di interesse del Monviso si evidenzia che tutto il settore di cresta presenta condizioni favorevoli alla formazione/conservazione del permafrost e, in particolare, nei settori di versante con esposizione nord e nord-ovest e quota superiore ai 2.700 m. Al di sotto di tale quota, il permafrost è possibile solo in condizioni particolarmente favorevoli quali una ridotta copertura nevosa, un ammasso roccioso con fratture aperte, la granulometria grossolana dei depositi. Il fenomeno di crollo innescatosi il 26 dicembre 2019 si è sviluppato in un contesto ampiamente interessato da condizioni molto probabili di presenza di permafrost, essendo la zona di distacco ubicata ad una quota di circa 3.100 m su un versante con esposizione nord-est. Tuttavia, come evidenziato nelle figure, si può osservare che il modello riporta proprio nell’area di distacco del crollo una possibile transizione a condizioni di permafrost leggermente meno probabili (“permafrost mostly in cold conditions”).
Figura 4
Distribuzione potenziale del permafrost nell’area del Monviso, in base al modello APIM ("Alpine Permafrost Index Map”) sviluppato nell’ambito del progetto europeo Spazio Alpino “Permanet – permafrost long-term monitoring network”.
Figura 5
Visione tridimensionale virtuale della distribuzione potenziale del permafrost nell’area del Monviso, in base al modello APIM ("Alpine Permafrost Index Map”, Boeckli et al., 2012) sviluppato nell’ambito del progetto europeo Spazio Alpino “Permanet – permafrost long-term monitoring network”.
I dati del monitoraggio del permafrost in Piemonte evidenziano una tendenza di incremento delle temperature nel sottosuolo in cui il permafrost è in fase di degradazione anche a 3.000 m di quota, tendenza confermata anche in altre stazioni alpine quali quelle della rete svizzera PERMOS o quella di Cime Bianche nella conca di Cervinia, gestita dall’Arpa Valle d’Aosta. I dati della stazione di monitoraggio del permafrost piemontese del Passo de La Colletta, a quota 2.850 m sullo spartiacque tra la Valle Maira e la Valle Varaita di Bellino, la più prossima all’area del Monviso, indicano una transizione a condizioni di “non permafrost” a partire dal 2012. La stazione del Colle Sommeiller, a quota 2.990 m in Alta Val Susa, ha evidenziato negli ultimi 10 anni un trend di riscaldamento di +0,151°C/decennio a 35 m di profondità, con una transizione a condizioni di “non permafrost” a circa 60 m di profondità a partire dal 2014.
Ulteriori affinamenti delle elaborazioni dei dati termici degli ammassi rocciosi, combinati con i trend climatici e con le analisi dello stato di fratturazione, consentiranno nel prossimo futuro di dettagliare meglio le relazioni tra degradazione del permafrost e instabilità dei versanti in alta quota, al fine di ottenere modelli predittivi utili per la gestione del rischio.
Crollo dalla parete nordest del Monte Français Pelouxe (Valle di Susa)
Figura 6
Versante nordest della Français Pelouxe
La frana, originatasi a partire da una quota massima di 2650 m, ha coinvolto il tratto centrale della ripida parete rocciosa (Fig. 7) costituita da calcescisti marmorei e si è riversato nel vallone sottostante, appoggiandosi ad una piccola morena. Il sopralluogo effettuato alcuni giorni dopo il distacco ha consentito di verificare che la frana, il cui volume è stato stimato pari a 70.000 m3, si estende su una superficie di circa 2,3 ha ed è costituito da blocchi di grandi dimensioni, talvolta fino a 10 m3. Il crollo è avvenuto presumibilmente in due fasi, una immediatamente successiva all’altra, come testimoniato dalla presenza di due distinti accumuli. L’intero vallone è stato cosparso da un velo di polvere, prodotta dalla violenta disintegrazione della roccia, che in prossimità dell’accumulo raggiunge alcuni centimetri di spessore.
Figura 7
Vista tangenziale del versante nordest della Français Pelouxe interessato dal crollo del luglio 2020.
Fonte: Bruno Usseglio, Parco Naturale Orsiera-Rocciavré.
Le cause della frana sono da ricercarsi nella presenza di grandi fratture, chiaramente visibili lungo l’intera parete, che favoriscono l’instabilità gravitativa della roccia: in tal senso, in passato il versante nord-orientale della Français Pelouxe è già stato interessato da grandi frane di crollo, come indicano gli imponenti accumuli di blocchi presenti alla base della parete. Nella nicchia di distacco non sono state osservate emergenze d’acqua che possano in qualche modo testimoniare la presenza di significativi fenomeni di fusione del ghiaccio nel permafrost. Tuttavia, sull’accumulo è stato notato un blocco attraversato da colature di fango che sembrerebbero confermare la presenza, al momento del distacco, di ghiaccio all’interno delle fratture (Fig. 8). Nel corso del sopralluogo sono stati uditi e osservati, con relativa frequenza, numerosi distacchi di materiale roccioso, episodi che presumibilmente proseguiranno fino al completo assestamento della roccia.
Figura 8
Blocco di frana
Permafrost e risorse idriche
- non esiste un’adeguata conoscenza delle reali risorse idriche utilizzate, ma neanche delle potenziali riserve stoccate e non ancora sfruttate nell'ambito alpino;
- manca una diffusa cultura dell'acqua, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici in atto;
- non vi sono strumenti comuni e condivisi di indirizzo politico per la gestione della risorsa idrica in ambito transfrontaliero.
Sulla base di queste considerazioni è nata l’idea progettuale “RESERVAQUA”, presentata nel programma Interreg Italia-Svizzera, che verrà illustrata in sintesi nei prossimi paragrafi.
Progetto RESERVAQUA
Il Dipartimento Rischi Naturali ed Ambientali di Arpa Piemonte è partner del progetto europeo “Reservaqua” approvato nell’ambito del primo bando del Programma Interreg V-A Italia-Svizzera (Asse 2 - Valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, 2.1 - Aumento delle strategie comuni per la gestione sostenibile della risorsa idrica).
Il progetto della durata di 36 mesi (luglio 2019- luglio 2022) è guidato dalla Regione Valle d’Aosta e dal Cantone Vallese. Oltre ad Arpa Piemonte, gli altri partner italiani sono: la Fondazione Montagna Sicura di Courmayeur (AO), l’Arpa Valle d’Aosta, l’Institut Agricole Regional di Aosta e il Politecnico di Torino. I partner svizzeri sono: il Servizio per l’agricoltura del Cantone Vallese e il CREALP (Centre de recherche sur l'environnement alpin di Sion - Vallese).
Obiettivi e attività principali
Le attività sono suddivise in 5 Work Package (WP) in cui grande importanza riveste la comunicazione (Wp2) con iniziative di informazione sulla risorsa idrica, azioni pilota di educazione e promozione di centri tematici, ciclo di eventi transfrontalieri rivolti a tecnici, amministratori e cittadini. Le attività tecniche sono sviluppate principalmente nel Wp3 e Wp4 in cui si effettuerà l’analisi delle risorse idriche disponibili sul territorio transfrontaliero e si creeranno le basi per l’ottimizzazione dell'uso della risorsa idrica nel settore agricolo. Infine, nel Wp5 verranno affrontate le prospettive per una gestione sostenibile della risorsa idrica in ambiente alpino, attraverso l’approfondimento sulle normative e sulle disposizioni vigenti a livello europeo in materia.
Per rimanere aggiornati su attività e iniziative promosse da RESERVAQUA, potete iscrivervi alla Newsletter di Progetto.
Principali attività di Arpa Piemonte
Il modello considera anche la risorsa idrica connessa alla criosfera (attraverso ad esempio simulazioni regionali dello Snow Water Equivalent, misure dello spessore glaciale e della sua evoluzione, misure delle portate in uscita da apparati glaciali, idrologia dei rock glaciers) che permette di affinare la comprensione e definire la vulnerabilità dei sistemi idrogeologici che alimentano i punti di approvvigionamento.
Tra gli obiettivi principali di Arpa Piemonte nell’ambito del progetto Reservaqua, grande importanza riveste la comprensione ed il miglioramento delle conoscenze dei sistemi idrogeologici in alta quota, in particolare di quelli connessi al permafrost. Questi dati verranno integrati nel modello generale e consentiranno di comprendere meglio il ciclo dell’acqua sia superficiale che sotterraneo nei settori di alta montagna in cui la risorsa idrica è in parte conservata sotto forma di ghiaccio. L’attenzione è dedicata in particolare ai rock glacier: corpi detritici semoventi contenenti ghiaccio.
Figura 10
Ortofoto dell’area del Vej del Bouc (Alpi Marittime)
Il rock glacier è un elemento geomorfologico caratteristico dell’ambiente periglaciale costituito da una forma di accumulo di clasti eterometrici (corpo detritico), più o meno allungata, generata da un flusso lento lungo il versante del detrito e del ghiaccio in esso contenuto (come ghiaccio sedimentario e/o ghiaccio interstiziale). Il rock glacier è un indicatore morfologico del permafrost. Nelle Alpi piemontesi sono stati censiti oltre 430 rock glacier, il 30% dei quali considerati attivi, cioè contenenti ghiaccio; la quota minima di queste forme attive è mediamente attestata intorno ai 2300 m.
Arpa Piemonte ha intrapreso da qualche anno alcuni studi di approfondimento su una decina di questi corpi detritici al fine di comprenderne l’evoluzione, la stratigrafia, il contenuto in ghiaccio e la sua evoluzione nel tempo. Gli approfondimenti vengono condotti principalmente attraverso campagne geofisiche (tomografia elettrica, georadar, sismica passiva) con il supporto del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e dell’Università dell’Insubria, attraverso campionamenti ed analisi chimiche delle acque (in collaborazione con il CNR-IRSA di Verbania e del DIATI del Politecnico di Torino), effettuando rilievi fotogrammetrici di precisione con sistemi GNSS e APR (in collaborazione con Arpa Valle d’Aosta), monitoraggio in continuo di alcuni parametri chimico-fisici. Attraverso tali studi si intende giungere ad una valutazione quantitativa e qualitativa della risorsa idrica connessa al permafrost ed in particolare ai rock glacier. Ciò consentirà di valorizzare ed eventualmente tutelare tale risorsa, in funzione anche degli effetti del cambiamento climatico sulla criosfera.
Nella presentazione effettuata al Meteolab del 7 novembre 2020 sono presenti maggiori dettagli su questa attività e sui risultati preliminari. Link al video (dal minuto 5:25 al minuto 5:45).
CONTENUTI CORRELATI
Interreg Italia - Svizzera
Arpa Piemonte
Per approfondimenti sul permafrost consulta la bibliografia:
Muller, S. W., 1947. Permafrost or Permanently Frozen Ground and Related Engineering Problems. Ann Arbor, Mich.: J.W. Edwards, 231pp.